Recensione: "Cecità" di J. Saramago
" Cecità" di J. Saramago, premio Nobel per la letteratura nel 1998 , è un libro doloroso, agghiacciante, necessario. Non è un distopico ma un romanzo di carattere surreale: si parte, infatti, da un'ambientazione che è realistica, con descrizioni dettagliate e concrete di una società che appare contemporanea, sebbene tempo e luogo rimangano non identificati. C'è, tuttavia, un elemento fantastico, che è poi l'elemento scatenante la successione delle vicende narrate; si tratta di un'epidemia del tutto improvvisa, del tutto anomala: una cecità bianca come un manto lattiginoso colpisce prima un piccolo gruppo poi tutta la città. Il governo decide di mettere in quarantena, dentro un ex manicomio, i primi ciechi per paura del contagio. Qui i ciechi vivranno in condizioni disumane conoscendo abbandono, squallore, perdita di dignità e umanità, violenza e morte. In seguito a un incendio, i ciechi, guidati dall'unica donna che non ha perso la vista, giungeranno in città ma anche qui regna la cecità.
E' un'allegoria dell'umanità in tutte le sue sfaccettature: non viene infatti rappresentata solamente la malvagità, la perdita di razionalità, la come si suole dire "bestialità" dell'uomo( il termine è quanto mai inappropriato considerando che proprio un cane, nella seconda parte del romanzo, mostra un'umanità commossa istintiva, ben maggiore dell'uomo) ma anche la solidarietà, cioè la capacità di far fronte comune alle avversità e poi l'amore, la forza, in particolare delle donne e infine la speranza, la forza vitale che sostiene e permette di andare avanti. Tutto il testo è permeato di allegorie e simboli a partire dai personaggi. Essi non vengono mai nominati e questo in qualche modo ne rivela la loro identità universale; ne fa uomini uguali a uomini, tipi uguali a tipi. La loro cecità è, in realtà, condizione propria dell'uomo, dell'uomo che non sa vedere oltre sé e dentro sé, accecato da egoismo e paure. C'è così "il medico" che dovrebbe essere guida e invece perde il controllo e poi ci sono "i cattivi", il ladro pentito e gli stupratori.
In questo affresco di un'umanità appiattita nella brutalità, un ruolo positivo è affidato alle donne. Non è un caso che sia una donna, la moglie del medico, l'unica a vedere: è l'eroina che non teme la cecità, che guida, soccorre, reagisce alla prevaricazione e alla violenza; è simbolo, quindi, di quell'umanità, esigua ed eroica, che non perde l'uso della razionalità; tuttavia " il suo vedere" la rende diversa, sola; una solitudine devastante che unità alla "fatica" del vedere, talvolta in pieno sconforto, le fa desiderare la cecità, proprio come noi lettori, testimoni nostro malgrado di tanta bassezza siamo tentati ad abbandonare la lettura. Ci sono poi altre donne nel romanzo; vittime della violenza più vile, mostrano una forza che è insieme dignità e sacrificio mentre gli uomini che dovrebbero proteggerle sono solo miseri vigliacchi, che come cani riescono solo a marcare il loro territorio in senso di possesso per riesumare la loro dignità ferita. Tra le donne, "la ragazza con gli occhiali scuri" è poi simbolo del superamento dei pregiudizi sociali: da donna facile a donna che ama un vecchio, superando, così, quelle barriere che la vista stessa impone.
E così la cecità, mentre la sua coltre ricopre ogni forma di civiltà, per assurdo, allo stesso tempo, si rivela ciò che permette di vedere davvero chi siamo.
Il finale, in città, uno scenario di tipo apocalittico dove ancora una volta è stata abbandonata ogni regola di convivenza, è intriso di simbolismo ( la pioggia che "purifica" ne è un esempio) e di spiritualismo( la scena in chiesa con il Cristo bendato sembra gridarci un angoscioso" Dio è cieco?").
Stile personalissimo quello di Saramago che con un uso particolarissimo della punteggiatura, ci rende ciechi, costretti a ritornare indietro, rileggere, trovare appigli per poi muoverci con più dimestichezza; ci travolge come fiume in piena, lasciandoci interdetti.
Un capolavoro crudo, disarmante che suscita timore e sgomento e che insieme ammalia per la sua prosa alta e la naturalezza del suo incedere senza fatica, propria di un grande scrittore.
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